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Circolo d'immaginazione

Il bollettino di City e le varie fanzine degli anni '80 hanno pubblicato spesso interventi e schede di film di sf; film che hanno avuto un peso significativo sia per il genere che per il mondo del cinema. In questa sezione vogliamo riproporre quelle che a nostro avviso possono avere una rilevanza dal punto vista storico e culturale.


Articolo riproposto da:
Fanzine periodica bimestrale, anno III, giugno 1984, n°18.


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Scheda filmografica

Christine, la macchina infernale
Christine
USA, 1983.

     

Christine
la macchina infernale

 

di Roberto Milan

John Carpenter è tornato al suo pubblico a bordo di una Plymouth Fury del 1958: un’automobile bianca e rossa chiamata Christine.
È tornato con un film ben congegnato, fondato su di una buona idea non sfruttata però al meglio, e ricco di elementi di richiamo fra cui, oltre all’elevata spettacolarità, si distingue il mondo dei giovani ed il suo contorno di musica rock e di corse in automobile.
Il paragone con “Duel” di Spielberg è talmente ovvio da apparire forzato. Anche in esso i protagonisti sono delle macchine: un camion e un’auto; anche in esso il mezzo meccanico è visto come un pericolo, ma si tratta di un discorso più universale che si ricollega alla trattazione del rapporto uomo-macchina, in cui le paure e gli incubi che scaturiscono dalla visione della pellicola nascono proprio dall’essenza della macchina in quanto tale.
“Christine”, invece, si limita ad un discorso meno impegnativo, votato esclusivamente a generare una notevole suspense affondando le proprie radici nell’horror più puro e generalizzato. “Christine” è l’incarnazione di una forza malvagia, così come lo sarebbe potuta essere una qualsiasi altra cosa o persona (non necessariamente un’automobile); esempi ne abbiamo svariati, da “L’esorcista” a quello che indubbiamente è uno dei capolavori di Carpenter “Halloween: la notte delle streghe” in cui è un bambino di nome Michael ad essere posseduto dal male. A proposito di quest’ ultima opera è interessante notare un’analogia che la accomuna a “Christine”: l’onnipresenza della dimensione uomo-male nella realtà quotidiana. Nessuno è sicuro da quelle forze arcane che vivono nei regni dell’ombra e che ripetutamente, sotto le più svariate forme, si manifestano ai mortali per coinvolgerli in una vorticosa spirale di paura.
Si tratta, però, di una concezione non certo originale, anzi, si può con ragione affermare, del tutto comune per il cinema horror, il che riduce le potenzialità comunicative dell’opera. Nessuna innovazione, insomma, a differenza di quanto Carpenter aveva fatto in altri film (primo fra tutti “1997: fuga da New York”, capostipite insieme a “Interceptor” di George Miller delle pellicole sul “dopobomba”), nessun particolare messaggio in grado di nobilitare l’opera.
La causa di questo può andare ricercata sia nel soggetto che nella sceneggiatura, entrambe ad opera di Stephen King, un autore che in questi ultimi tempi ha conosciuto uno stratosferico lancio in campo cinematografico (fra gli ultimi usciti “Cujo” e “Creepshow”). Ebbene, King, pur conferendo alla vicenda un’avvertibile dose di thriller, esaltata poi dalla direzione di Carpenter, si è limitato a fornire una storia ben strutturata, abbastanza coinvolgente ma priva di un significato che trascenda la semplice evidenza delle cose, a differenza di quanto lo stesso Carpenter faceva nelle sue prime opere, in cui curava anche la sceneggiatura e ideava la trama. È interessante notare come le pellicole in cui egli non ha curato oltre che la regia anche queste due specialità, risultino in definitiva le sue peggiori, un esempio sono “Elvis, il re del rock” e il recente “La cosa”. La genialità di Carpenter sta proprio nella sua poliedricità, e quando questo fattore viene a mancare si perde l’elemento primo del suo successo.
La consumata abilità di questo regista si segnala comunque anche in “Christine” con vari spunti, purtroppo isolati, in cui la tensione raggiunge livelli ottimali quali si erano già visti in “Fog” o “Halloween”; coadiuvato in ciò da validi effetti speciali, Carpenter riesce, se non altro, a dare al film un’indubbia spettacolarità che lo rende piacevole alla visione dello spettatore.
La storia ha come protagonista un giovane diciassettenne di nome Arnie che, trovata in un giardino abbandonato una vecchia e arrugginita Plymouth Fury è vittima della malvagità che in essa risiede. Vinto da questa sua ossessione, Arnie si distaccherà sempre di più dai suoi amici, i cui sforzi per ricondurlo alla normalità risulteranno completamente vani. La stessa automobile, Christine, si vendicherà spietatamente di chiunque tenti di separarla dal giovane da lei posseduto. Avvincente lo scontro finale con un grosso bulldozer che richiama, più di ogni altra cosa, “Duel”, e più particolarmente la lotta finale fra l’autotreno e la macchina del protagonista.
Da sottolineare, però, che tranne l’appena menzionata serie di sequenze finali, è la prima parte della pellicola a regalare i maggiori colpi di scena, mentre in seguito la suspense si attenua notevolmente per riesplodere, pur se in maniera contenuta, al termine della vicenda.
Positivo l’apporto recitativo degli interpreti impegnati, fra cui si distingue un nome non nuovo alla collaborazione con Carpenter come Harry Dean Stanton (Brian Hellman, la “Mente” in “1997”), e quello del protagonista, Keith Gordon, che, pur non avendo una grande esperienza passata appare abbastanza disinvolto.
In definitiva l’opera è discreta, anche un po’ troppo dispersiva nella sua globalità, ma conferma il momento di discesa graduale che, a mio avviso, Carpenter sta accusando. Dopo un’eccezionale successione di ottimi film come “Distretto 13 brigate della morte”, “Halloween”, “Fog” e il culmine “1997:fuga da New York”, la fase calante è iniziata con “La cosa”, un rifacimento originale come impostazione ma, se vogliamo, abbastanza gratuito per il regista che avrebbe potuto ambire a ben altre soddisfazioni. In questa scelta deve indubbiamente aver giocato un ruolo rilevante il fascino del film di Hawks e Nyby e il budget messo a disposizione dalla Universal (15 milioni di dollari) se Carpenter ha accettato le imposizioni e la troupe della casa produttrice, ma appare meno motivato l’aver accettato la direzione di “Christine” rinunciando al soggetto e alla sceneggiatura.
Non si tratta certo di un declino capacitivo, quindi, ma più che altro di un’errata linea di condotta per ciò che concerne la scelta degli impegni di lavoro. Carpenter, forse, non ha capito che non basta un bravo regista a rendere bella una storia mediocre. La genialità deve essere libera di esprimersi e non vincolata da gravose catene.