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Circolo d'immaginazione

Il bollettino di City e le varie fanzine degli anni '80 hanno pubblicato spesso interventi e schede di film di sf; film che hanno avuto un peso significativo sia per il genere che per il mondo del cinema. In questa sezione vogliamo riproporre quelle che a nostro avviso possono avere una rilevanza dal punto vista storico e culturale.


Articolo riproposto da:
Fanzine periodica bimestrale, anno III, aprile 1984, n° 17.


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Scheda filmografica

Ai confini della realtà
Twilight Zone
USA, 1983.

I episodio e prologo

II episodio

III episodio

IV episodio

     

Ai confini della realtà

 

di Roberto Milan

Esiste una dimensione, oltre a quella reale, in cui la mente può vagare libera e l’immaginazione, non pù prigioniera delle normali convenzioni, può sbizzarrirsi indisturbata, generando tenui sogni ma anche incontrollabili incubi. È una dimensione nascosta. Non esistono strade per raggiungerla, ma nemmeno modi per fuggirla. È lei ad inseguire gli uomini e a catapultarli in un mondo distorto in cui regna la pazzia.

Un’automobile viaggia su di una strada solitaria.
È notte fonda ed i due giovani occupanti del veicolo ascoltano della musica, ma il nastro del registratore si inceppa e la radio non funziona; così, per passare il tempo giocano a indovinare delle sigle di trasmissioni televisive. Poi, il conducente (Albert Brooks), per spaventare l’amico spegne i fari e guida per un tratto al buio, col rischio di un incidente.
- Adoro provare il brivido – dice, - adoro la paura. –
Il passeggero (Dan Aykroyd) lo guarda abbastanza scosso, poi si riprende e pronuncia con fare indifferente una strana domanda:
- Vuoi vedere qualcosa di veramente spaventoso? –

Il processo è ormai iniziato, irreversibile. Un processo che porta lontano, nell’irrazionalità più assoluta; là dove la ragione frana inerte di fronte all’impossibile, ad un incubo che appartiene “Ai confini della realtà”. E tenetelo presente, questo è solo l’inizio!
Da questo suggestivo prologo, trova un valido sviluppo un film che, suddiviso in quattro episodi, ripropone, ad otto anni dalla morte di Rod Serling, il fascino e lo spirito di quella che fu una delle più famose serie di telefilm fantastici realizzata fra gli anni Cinquanta e Sessanta: “The Twilight Zone”.
Definire l’elemento orrorifico come comune denominatore delle quattro vicende è sostanzialmente esatto, purché si tralasci l’episodio diretto da Steven Spielberg, indubbiamente il più poetico e suggestivo. Per il resto è la paura la vera dominatrice; sia che si manifesti attraverso un fenomeno spazio-temporale che costringe un americano razzista a vivere le tragedie di un ebreo nella Parigi nazista della seconda guerra mondiale, di un nero caduto nelle mani del Ku Klux Klan, e di un giallo bersagliato da soldato americani, oppure attraverso gli straordinari poteri di un bambino (Jeremy Licht) i cui desideri si trasformano in realtà o ancora a causa di una misteriosa creatura che cammina sulle ali di un aereo durante una tempesta.
Partendo da simili idee, fra l’altro ben sceneggiate da uno stuolo di autori di indubbio valore (meritevole di citazione è Richard Matheson, maestro indiscusso per quanto riguarda storie ricche di thriller e con risvolti horror), i tre registi, John Landis (“Un lupo mannaro americano a Londra” , “Schlock” e, seppur di tutt’altro genere “The blues brothers”, “Animal House” e il recente “ Una poltrona per due”), Joe Dante (“Piranha”, “L’ululato”), George Miller (“Interceptor” 1 e 2), rendono con estrema lucidità e linearità l’evolversi delle vicende, creando, con gran mestiere, il clima di tensione indispensabile per il coinvolgimento dello spettatore. In questo riesce soprattutto Miller nell’ultimo episodio, quello dell’aeroplano, in cui l’irreale si fonde con l’aspetto razionale in maniera veramente ottimale, determinando una suggestione ancora più intensa, grazie anche all’estrema validità degli effetti speciali utilizzati.
Ma “Ai confini della realtà” non regna solo la paura. Per alcuni, i più fortunati, questa straordinaria dimensione può anche significare l’avverarsi di un sogno a lungo desiderato, il recupero delle motivazioni che generano quella voglia di vivere troppo spesso smorzata dalle avversità del mondo reale. L’episodio condotto da Spielberg ha tutte le caratteristiche della favola: è poetico, suggestivo, malinconico, all’apparenza forse semplice e banale ma capace di indurre riflessioni, in virtù di una notevole carica evocativa. Protagonisti sono un gruppo di anziani abitanti in una casa di riposo che mr. Bloom (Scatman Crothers) a guisa di buon mago delle fiabe, fa tornare bambini solo per far loro scoprire che il desiderio di riottenere la loro primitiva condizione, per non dover affrontare nuovamente la vita. L’esperienza però li ha trasformati dentro, facendo nascere in loro quella magica sintonia con il mondo che avevano perduto con la vecchiaia.
La mancanza di un’unità effettiva del film vanifica la possibilità di portare avanti un discorso omogeneo con tematiche più profonde. Legate dal medesimo filo conduttore, rappresentato dalla dimensione fantastica in cui si muovono, le varie vicende si presentano come cellule isolate, autonome, in cui può esistere la comunicazione di un determinato messaggio (comunque profondamente differente da episodio a episodio), oppure può sussistere esclusivamente l’aspetto esteriore di avventura e spettacolarità.
Già ho accennato alle implicazioni, tutto sommato filosofiche, che la favola di Spielberg comporta, e così pure una breve nota merita il lavoro di Landis in cui la condanna del razzismo è quanto mai drastica ed esemplificata da una storia, forse un po’ banale, ma assai valida e suggestiva.
Tornando a Spielberg è interessante osservare come il tema, a lui usuale, dei bambini e del mondo dell’infanzia, già riscontrabile in “incontri ravvicinati del terzo tipo” e soprattutto in “E.T.” (da ricordare che ci sarebbe anche “Poltergeist” che, pur essendo stato girato da Tobe Hopper, era stato ideato proprio da Spielberg), ricompaia anche in quest’opera, acquisendo connotazioni ancora più delineate perché visto da una prospettiva diversa rispetto ai precedenti, e appena citati, film; i bambini vivono in una dimensione più pura e ricettiva perché sono ancora ignari di quanto riserverà loro la vita; non è possibile ritornare all’infanzia, tranquilla e spensierata, dopo essersi scontrati con la dura realtà dell’esistenza.
I due episodi di Dante e Miller, posti in conclusione della pellicola, si alternano avvincenti e spettacolari, e se il primo presenta un finale forse un po’ deludente dopo le premesse, il secondo denota, al di là del perdurante stato di tensione a carica emotiva, una certa dose di umorismo, sia nell’atteggiamento conclusivo dell’essere mostruoso, chiaramente di scherno, sia nell’epilogo vero e proprio del film, quando la fatidica frase, che aveva dato inizio al concatenarsi degli eventi terrorizzanti, viene ripetuta (sempre da Aykroyd) lasciando intendere che tutto avrebbe potuto continuare.
Certo si tratta essenzialmente di un’opera votata alla spettacolarità, ma il prodotto è di ottimo livello e neanche eccessivamente commercializzato. Comunque, che venga o no apprezzata, la pellicola dà un chiaro insegnamento. Se qualcuno vi chiede: “Vuoi vedere qualcosa di veramente spaventoso?” non rispondetegli e fuggite, finché potete ancora farlo. I confini della realtà potrebbero essere più vicini di quanto pensiate.